Il mio giornalismo: coraggio e passione tra autonomia ed indipendenza di giudizio.

Un duro mestiere che va vissuto, come la vita, con successi ed insuccessi, con gioie ed amarezze.

"Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare. L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede".

ANNA POLITKOVSKAJA

< I libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l'imprevedibilità>.
(Jean-Paul Sartre)

Diavoli, bombe atomiche e mass media. Il punto di vista di Pasolini e Moravia

Senza mezzi termini, né falsi pudori e nemmeno paure di essere «inattuale», nelle Lettere luterane Pasolini afferma di voler comporre un «trattato pedagogico». Nei primi capitoli di questa raccolta - dedicata al personaggio di Gennariello, da intendersi come una sorta di lettore implicito o lettore ideale - lo scrittore prende perciò in considerazione le «fonti educative» più immediate: dal «linguaggio pedagogico» delle cose, «mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti» (come le merci e i beni di consumo), a quello trasmesso dalla famiglia e dai genitori, «educatori ufficiali» anche se talvolta «diseducatori», a quello della scuola e della stessa «antiscuola» - la polemica politica contro la scuola, che impone un conformismo altrettanto angosciante. Nell'ultima parte del volume lo scrittore non trascura di prendere in considerazione anche i media: «la stampa e la televisione», che definisce «questi spaventosi organi pedagogici privi di alcuna alternativa» (LL, pp. 31-33).

In questa analisi che Pasolini rivolge ai mezzi di comunicazione e alle sue forme, ai canali privilegiati di trasmissione della contemporaneità con cui un ragazzo si trova a confrontarsi nell'Italia degli anni Settanta, è evidentemente centrale il linguaggio - segno e sintomo della vitalità di una cultura come del suo soffocamento. Si pensi alle acutissime osservazioni sul linguaggio degli slogan inScritti corsari (dall'articolo apparso sul Corriere della sera, «Il folle slogan dei Jeans Jesus»), in cui si mette in evidenza non solo la forma irrigidita e stereotipata dello stesso slogan, «il contrario dell'espressività, che è eternamente cangiante» (SC, p. 14), ma anche la rivelazione di sé come segno duplice: nuovo valore, laico ma blasfemo, dell'«entropia borghese» che usa la religione come propulsore di enorme consumo e, al tempo stesso, pretesto per considerare la ridicola reazione della stampa religiosa (si allude a un articolo dell'Osservatore romano): «con il suo italianoccio antiquato, spiritualistico e un po' fatuo, l'articolista dell'Osservatore intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. È lo stesso tono con cui sono redatte, per esempio, le lamentazioni contro la dilagante immoralità della letteratura o del cinema» (SC, p. 15). La Chiesa (e i giornalisti che scrivono per tale istituzione), insomma, colpiscono laddove e nei termini in cui non dovrebbero colpire, senza comprendere come non si tratti di una semplice blasfemia, ma di quella espressione - fenomeno ormai irreversibile per la società italiana - del Neocapitalismo quale unico dio della borghesia.

Oltre alle considerazioni che dedica al linguaggio del potere consumistico, nelleLettere luterane Pasolini esprime la propria indignata reazione alla parola dei politici, dei democristiani innanzitutto, tra i quali ravvisa «i diretti responsabili o mandanti della strategia della tensione e delle bombe». Di queste stragi essi non parlano, mentre si esprimono laddove non dovrebbero parlare:

non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per consapevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie. (LL, p. 29.)

In Scritti corsari, da un articolo uscito per il Corriere della sera («Il romanzo delle stragi», 14 novembre 1974), lo scrittore ribadisce:

  1. i politici e i giornalisti, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. [...] Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici con il potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove e indizi. (SC, p. 75.)

Quale soluzione, allora, di fronte a questa forma di mistificazione linguistica o di implicita censura operata all'interno della democrazia stessa? Nelle Lettere si mette in evidenza come il compito dell'educatore, comunque, sarebbe di insegnare a non ascoltare tali «mostruosità linguistiche». «In altre parole», precisa Pasolini, «il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l'Italia» (LL, p. 30).

Tale è il motivo - ridare coscienza e vigore a quel «corpo», inerte, ma sempre da intendersi come tale, come composto di uomini fatti di parola e fisicità - per cui Pasolini non si rassegna a tacere, ma sceglie di smuovere questo acritico, atrofizzato ristagno intellettuale e corporale sia attraverso la poesia, ad esempio con voce friulana o romanesca (qui dichiara che vorrebbe parlare napoletano, se non fosse capace), sia nel cinema (si veda la Trilogia della vita, con Le mille e una notte, il Decamerone e i Racconti di Canterbury, di cui parla nelle stesseLettere), sia attraverso gli stessi media di cui inevitabilmente fa parte, senza risparmiarsi davvero di sprofondare all'interno di questi canali di comunicazione, come dimostra negli articoli per Il Corriere e Il Mondo pubblicati negli Scritti corsari. Un empito quasi biblico, un ferire di spada che di spada ferisce, ma anche una dichiarazione d'amore che esplode proprio nel momento della sua negazione (nel momento stesso in cui dichiara, verso i giovani, il suo disamore e la sua condanna, LL, p. 6). Un inno all'«Ombra sdegnosa» di De Sade piuttosto che all'«ombra mostruosa di Rousseau», le Lettere Luterane, scritto con la speranza che il libro non sia semplicemente preso tra i testi «leggibili» (LL, p. 33).

Particolarmente importante mi sembra questa allusione a Roland Barthes, al «bellissimo libro» Il piacere del testo (LL, p. 33), che si coglie non soltanto attraverso l'implicita distinzione tra testi «leggibili» - accondiscendenti, colti, piacevoli e confortevoli, ma non realmente innovativi né deflagranti - e testi «scrivibili», testi di godimento, in cui prorompe la jouissance e si dispiega la «natura asociale del piacere» (Barthes, 1999, pp. 85 e 104). Credo che ogni aspetto di questa scrivibilità del testo affermata da Barthes valga poi implicitamente per Pasolini come norma (l'unica, la più efficace) capace di contrastare quei meccanismi di appiattimento della cultura, dell'intelligenza, della corporeità stessa coinvolta nell'atto intellettuale generati dalla più banale comunicazione massmediologica. Il testo di godimento, per Barthes (e nella sua stessa citazione di De Sade), è quello che deriva da «certe rotture (o da certe) collisioni», ad esempio quelle tra «codici antipatici» che entrano in contatto (Barthes, 1999, p. 77), quello della perdita e della distruzione di quell'immaginario e di quel piacere strumentalizzato per creare delle condivisioni o delle gerarchie ideologiche (cfr. Žižek, 2006, pp. 139-169). Se il linguaggio capitalista è «implacabile invischiamento», doxa, ideologia, infatti, il testo letterario è quello del paradosso, dell'atopia, dell'indicibile, che fa a pezzi il piacere stesso, appunto, e con esso la lingua e la cultura, che «mostra il didietro al Potere Politico» (Barthes, 1999, p. 115). È il testo che rivive come corpo, «corpo anonimo dell'attore dentro il mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, raspa, taglia: gioisce» (Barthes, 1999, p. 127).

Credo che sia attraverso questo immediato entusiasmo per la critica bartiana che vadano comprese molte prese di posizione, implicite (quindi letterarie) ed esplicite (giornalistiche) di Pasolini (su questa distinzione che può apparire un po' vaga tornerò a parlare) rispetto alla comunicazione dei nuovi media, che andava e sarebbe andata (e lo dimostra il mondo di oggi, degli ultimi trent'anni) sempre più in direzione contraria rispetto a quella stessa forza del testo rivendicata da Barthes. Non si tratta soltanto, per Pasolini, di un problema letterario o critico. Per lo scrittore l'atteggiamento dei media è tra i primi responsabili della criminalità e del suo legame con le trasformazioni sociali dell'Italia. La televisione e la scuola media dell'obbligo sono provocatoriamente eliminate dal progetto educativo delle Lettere Luterane, come è spiegato in Due proposte per eliminare la criminalità in Italia, in quanto principali responsabili di un'educazione di massa sempre più tendente alla criminalità. La scuola media dell'obbligo e la televisione danno l'illusione di un falso progresso della cultura (il sottotitolo delle Lettere è proprio Il progresso come falso progresso) e servono all'«iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese» (LL, p. 169). Sono, quindi, strumenti della mentalità piccolo borghese: non poca cultura perché è improduttiva, non troppa perché è scomoda. Quel tanto che basta a sviluppare una massa utile a soddisfare le esigenze della società italiana e ad aderire alla sua classe politica dominante senza dare troppo fastidio, insomma. È questa la «retorica progressista» della democrazia (cristiana) degli anni Sessanta e Settanta. A differenza della scuola, inoltre, la televisione gioca un ruolo ancora più incisivo, sotto certi aspetti, in quanto «esempio», i cui «modelli» non vengono parlati, ma rappresentati.

E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l'era della pietà, e iniziato l'era dell'edonè. Era in cui i giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell'irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all'infelicità (che non è una colpa minore). (LL, p. 170.)

Non si tratta soltanto di una forma di emulazione, ma di una connivenza nella degenerazione di certi meccanismi sociali. È molto interessante vedere come il concetto dell'«era dell'edoné» sia poi ripreso, in ambito sociologico, dal filosofo Slavoj Žižek, il quale ha scritto che «tutta la politica poggia su un certo livello di economica del godimento, che essa peraltro manipola» (Žižek, 2006, p. 143), e ha sviluppato questo concetto in gran parte dei suoi scritti (tra gli altri, cfr. Žižek, 2001, 2003, 2008).

Per Pasolini, uno degli esempi più significativi di questa emulazione popolare dei modelli televisivi, mediativi e del loro potere di manipolazione è rappresentato dal massacro del Circeo. Nell'ambito della «solita ondata di stupidità giornalistica» (LL, p. 166), l'episodio dà modo allo scrittore di confrontarsi con altri intellettuali italiani come Calvino (il quale si era espresso in un articolo delCorriere della Sera dell'8 ottobre 1975) e, appunto, Moravia, con i quali si trova a dissentire. In Lettera luterana a Italo Calvino, lo scrittore isola un'analisi - quella calviniana - perfettamente illuminante: la carneficina come qualcosa di «perfettamente naturale», la «permissività assoluta» che ha incoraggiato quel gesto; l'estendersi nella nostra società di «stati cancerosi»; l'atonia morale e l'irresponsabilità sociale, etc. (LL, pp. 179-184). Secondo Pasolini la critica di Calvino non fa che incoraggiare un luogo comune trasmesso anche dai media, ossia che i responsabili sono dei neofascisti, i quali hanno trovato terreno fertile in quella atonia sociale, in quello stesso clima di permissività assoluta di cui si è detto, e così via:

Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell'interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. (p. 182)

Aldilà della riflessione - mai troppo scontata - che la televisione rappresenti un modello efficacissimo di emulazione proprio attraverso i suoi meccanismi di fruizione e di rappresentazione, mi sembra che Pasolini abbia colto l'aspetto più sottile e tragico di questo episodio che (come l'attuale delitto di Cogne) si pone al centro dell'esperienza mediatica: l'interesse per la classe sociale in cui sono coinvolti i protagonisti della vicenda, «un caso che la riguarda», che coinvolge più da vicino la stampa e la società «bene» dell'Italia. Si tratta non solo di non comprendere questo meccanismo sociale, ma di incoraggiarlo. Interessarsi a un delitto perché compiuto in seno alla borghesia più che a un delitto tra borgatari e immigrati, individuare come capro espiatorio un male che deresponsabilizza (il neofascismo) vuole dire isolare come fenomeno di interesse un episodio descritto come proprio di una classe soggetta ad emulazione, quindi indirettamente farne un genere letterario. È, in fondo, la teoria aristotelica del protagonista della tragedia come chrestos, l'uomo nobile e ricco, e dell'esclusione del phaulos, l'uomo «dappoco» riservato allo stile comico. Ora essa si applica non al linguaggio sublime della tragedia stessa, ma al contagioso «verbalismo» di molti giornalisti, «complici degli uomini politici» (LL, p. 157) ed emuli a loro volta del linguaggio della politica, di cui rispecchiano la «caotica quotidianità» e la restituiscono in forma pericolosamente «mitizzata». Così avviene per il caso dei Circeo, che diventa - proprio attraverso la risonanza mediatica e il conformismo di certi intellettuali - un «genere di consumo». Se infatti i proletari e i sottoproletari italiani sono divorati dall'«ansia economica», non aspettano altro che di uniformarsi alla massa di piccolo borghesi, nell'emulazione di qualsiasi loro atto - e specie di quelli che salgono alla ribalta dei mass media.

Gli allettamenti del consumismo, la falsa retorica progressista hanno trasformato il «mondo reale» in «una totale irrealtà, dove non c'è più scelta possibile tra male e bene» (un fenomeno che, non a caso, è stato attribuito anche adArancia meccanica, di poco precedente e letto come segno di incapacità di distinguere tra bene e male). La falsa tolleranza soffoca le emozioni, le stempera, a vantaggio della superba indifferenza borghese, della riduzione dell'uomo a mezzo.

Sono concetti che attraversano anche la riflessione di Alberto Moravia, soprattutto nel saggio L'uomo come fine, dove lo scrittore individua nella società del Novecento «lo scadimento dell'umanesimo tradizionale; la sua immobilità, il suo conservatorismo; la sua ipocrisia di fronte agli eventi tragici della prima metà del secolo»:

L'uomo del neocapitalismo con tutti i suoi frigoriferi, i suoi supermarket, le sue automobili utilitarie, i suoi missili e i suoi set televisivi è tanto esangue, sfiduciato, devitalizzato e nevrotico da giustificare coloro che vorrebbero accettarne lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ridurlo a oggetto tra gli oggetti [...] Sotto apparenza scintillanti e astratte, si celano, a ben guardare, la noia, il disgusto, l'impotenza, l'irrealtà. (UF, pp. 3-4.)

Sia Moravia sia Pasolini rivolgono la loro attenzione a quel mondo divenuto irreale, astratto, espressione di un antiumanesimo che ha privato l'uomo non di una presuntuosa centralità, ma che lo ha ridotto a mezzo, a «oggetto tra gli oggetti», interprete disgustato di una corsa cieca che ha il suo movimento e il suo approdo nella perdita del rispetto per il linguaggio più vicino alle cose e alle emozioni, per la corporeità propria e altrui e nella incapacità di riconoscere, di esaltare e, insieme, di contenere le proprie passioni fuori dal potere economico e da quello della ribalta televisiva e, in genere, mediatica. Penso che, in questo senso, il prezioso punto di vista di Pasolini e di Moravia ci aiutino anche a capire le dinamiche che reggono le attuali e quotidiane offerte di delitti e di massacri, nella loro cieca esecuzione e nella stessa risonanza mediatica.

14Proprio la polemica di Pasolini con Moravia a proposito del massacro del Circeo, però, ha la funzione di chiarire le diversità delle posizioni e dell'espressione di entrambi sulla società contemporanea e sui suoi rapporti con larappresentazione mediatica, ma anche la loro complementarietà. In Le mie proposte per scuola e tv, che segue alla pars destruens delle Lettere Luterane di cui si è detto, Pasolini rimprovera a Moravia di non guardare «le cose stando in mezzo, ma da lontano. Perciò il suo interesse non può riguardare la concretezza o la fisicità» (LL, p. 173). Sempre rifacendosi a Barthes, lo scrittore iniziava il suo articolo dicendo che Moravia «prova il "piacere del testo" solo a patto, come ogni autore del resto, di romanzarlo» (LL, p. 172). Lo scrittore del romanzo Gli Indifferenti aveva infatti paragonato il massacro del Circeo al proprio racconto del 1927, Delitto al circolo del tennis. Nonostante le indubbie analogie, per Pasolini quest'ultimo rappresentava in realtà un episodio «idillico» rispetto alla verità dei fatti, così come il suo film Accattone (1961) era idillico rispetto all'analogo episodio dell'aggressione di Cinecittà.

15Se per Pasolini il «delitto gratuito "gidiano"» è «diventato un genere di consumo» (pp. 172-173), per Moravia le stesse coordinate tratteggiano l'impossibilità del tragico nella letteratura contemporanea:

Mi si chiariva insomma l'impossibilità della tragedia in un mondo nel quale i valori non materiali parevano non avere diritto di esistenza e la coscienza morale si era incallita fino al punto in cui gli uomini, muovendosi per solo appetito, tendono sempre più a rassomigliare a degli automi. (UF, p. 48.)

Già nel periodo fascista, inoltre, Moravia individuava una «tristezza» di corporeità e di linguaggio simile a quella sottolineata da Pasolini. Come scriveva in La noia (1960):

Sono nato nel 1920, la mia adolescenza passò, dunque, sotto l'insegna nera del fascismo, ossia di un regime politico che aveva retto a sistema l'incomunicabilità così del dittatore con le masse come dei singoli cittadini tra di loro e con il dittatore. La noia, che è mancanza di comunicazione con le cose, era nell'aria stessa che si respirava. (N, p. 11.)

Spero di non essere andata troppo lontana nella mia analisi, che intendeva mettere in evidenza anche qui una forma di comunicazione distorta, inautentica, irreale e - per così dire - malata, la stessa che Pasolini diagnostica nella società a lui contemporanea. Non solo, ma lo scrittore vede nel «potere consumistico (con la sua pretesa tolleranza)» una degenerazione ancora peggiore della retorica fascista. Eppure, nonostante il diverso approccio con il problema (Moravia dava a Pasolini del «preraffaellita»; quest'altro, come abbiamo visto, accusava l'amico di stare ad eccessiva distanza, di filtrare tutto attraverso il romanzesco, di non avere compreso come i contorni delle cose non fossero più nitidi, ma «due confusi, magmatici, disordinati, irriducibili, sbavanticampioni di una qualità di vita»: LL, p. 174), entrambi, in fondo, arrivano a riconoscere di dire «quasi esattamente le stesse cose» (LL, p. 177). Entrambi, in particolare, ravvisano nel conformarsi della società di massa all'ideale consumistico e nella degenerazione del capitalismo - come rovesciamento dei rapporti mezzo-fine tra uomini e cose, come estensione del concetto simbolico di capitale a tutta la realtà - una forma di distruzione dell'umanità nei suoi aspetti più autentici come il linguaggio, la corporeità, considerati tramite di una corrispondenza libera, piena, felice tra gli uomini. Per Pasolini è ancora più feroce, come abbiamo visto, la critica alla risonanza mediatica di questo fenomeno. Cito ancora gli Scritti corsari, a proposito di questa diseducazione: «il ragazzo piccolo-borghese, nell'adeguarsi al modello "televisivo" che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale, diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati» (dall'articolo apparso sul Corriere della Sera il 9 dicembre 1973 con il titolo «Sfida ai dirigenti della televisione», in Scritti corsari intitolato Acculturazione e acculturazione, SC, p. 24). Moravia, è vero, privilegia le metafore per delineare la schiavitù dell'uomo al consumo: basti pensare alla Noia, alla grottesca riscrittura del giovane che si immola al vitello grasso (e non viceversa), alla proiezione della frenesia consumistica nella simbologia sessuale, in questo romanzo e altrove, ma anche alla ricerca di antidoti tratti dal mondo naturale e sempre metaforizzati in un'imagerie molto ricca e diversificata.

Vorrei dunque concludere considerando come i punti di vista dei due scrittori si avvicinino - pur usando talvolta un linguaggio e un immaginario diverso (più esplicito, almeno nelle pagine che vi ho letto, quello di Pasolini; più implicito, simbolico, quello di Moravia) - in due racconti di Moravia come Il diavolo non può salvare il mondo e C'è una bomba N anche per le formiche, tratti da La cosa e altri racconti (1983), in cui i cambiamenti e le aberrazioni che si collegano alle nuove forme di comunicazione (la televisione e i mass media), sono proposti in modo ancora più intenso e problematico grazie all'elaborazione letteraria con cui sono trasmessi. In entrambi i casi, le aporie della società vengono affrontate attraverso il paradosso. Attraverso un'amplificazione parossistica, il consumismo è degenerato nell'incubo nucleare. Nel primo racconto viene riproposto il tema topico del patto con il diavolo, che va da Marlowe a Mann, a Boito, a Valéry, ecc. Qui, come nel rovesciamento parodico del vitello grasso, non è più l'uomo - ormai completamente padrone di sé - a innamorarsi del diavolo, ma è quest'ultimo che si innamora di colui, tale Gualtieri, che rappresenta la saturazione (e dunque la resistenza) dell'uomo di fronte a ogni desiderio. Il diavolo assume tutte le forme e sembra assecondare tutte le perversioni, ma senza successo: soltanto quando assumerà la forma del sesso femminile, verooggetto parziale per eccellenza, riuscirà a farsi possedere, per scomparire poi nel momento culminante del rapporto, lasciando soltanto come traccia di sé un «tenue fumo tremulo, che potrebbe benissimo essere uscito dal motore surriscaldato dell'automobile» (CR, p. 107). Anche nell'inedito I due amici, scritto nel 1953 e recentemente pubblicato - una sorta di palinsesto con tre redazioni differenti di una medesima storia (si racconta di Sergio, «intellettuale» e «comunista», e di Maurizio, «borghese» ricco e viziato ma carismatico, e molto restio a farsi «convertire» alla fede politica dall'amico) - soprattutto nella seconda redazione tutta la vicenda può essere letta come un patto con il diavolo. Tra i due amici si inserisce il personaggio di Lalla, la compagna di Sergio (che nelle altre due versioni si chiama Nella: appena introdotta nella prima, più remissiva e animalesca nella terza). La ragazza - paragonata a «quei rettili eleganti e goffi delle epoche antidiluviane» ma, insieme, «profondamente attraente» (DA, p. 106) - diventa oggetto del contendere tra i due amici, perché Maurizio promette che si convertirà al comunismo soltanto se Sergio gli concederà di andare a letto con lei. Il patto diabolico «messo in scena» da Maurizio, una trappola in cui l'«intellettuale» Sergio cade per troppa sicurezza, ha una funzione paradossalmente benefica: smascherare come un ideale politico non possa fare dell'uomo soltanto un mezzo per il raggiungimento del suo fine. La donna diventa per provocazione il simbolo di questo rovesciamento di valori: la mortificazione dell'amore e del corpo consacrati all'ideale e ridotti a merce di scambio e, al tempo stesso, la persuasione politica come mera conquista di voti, di anime vendute al demonio più che di autentiche e ponderate scelte. All'utopia si affianca così contemporaneamente l'antiutopia, con la ribellione della donna che si impone con intelligenza e in tutta la sua fiorente carnalità e si sottrae, alla fine, ai disumanizzanti esperimenti di entrambi.

Soggezione al potere politico, edonismo e consumo come nuove religione: due punti vista che richiamano ancora una volta Pasolini. Un punto di vista che, per l'autore di Le ceneri di Gramsci, non risparmia anche il conformismo di sinistra, con la sua volontà di «sconsacrare e (inventiamo la parola) de-sentimentalizzare la vita» (LL, p. 21).

20Naturalmente tra I due amici, scritto nel 1953 e i racconti di La cosa (1983) sono passati trent'anni e la società italiana non ha fatto che avverare le allarmate profezie «luterane» di Pasolini. In quest'ultima raccolta di racconti moraviani, il diavolo è veramente tra i simboli più ambigui della scrittura moraviana: segno di un'estenuante Wille che si perverte nel consumo, sua spietata rivelazione, figura di una provocatoria apocalisse che indica una via d'uscita (la sottrazione del consumo, del godimento ideologico) nel momento in cui mostra, rivela la più grande forza vitale dell'uomo e la sua più tragica perversione. In C'è una bomba N anche per le formiche l'astuzia mediatica è implicitamente richiamata fin dalle prime righe del racconto:

Alle sette del mattino, al mare, dopo avere spalancato la finestra, gli piace buttarsi tutto nudo sul letto, prendere il primo libro o rivista o giornale che gli capita sottomano e leggere per dieci, quindici minuti una cosa qualsiasi, per svegliarsi del tutto, per riprendere contatto con il mondo. Preferibilmente, qualche cosa di catastrofico, forse per equilibrare il senso di profonda tranquillità che emana dalla finestra piena di un cielo ancora freddo e vuoto, con vaghe tracce, qua e là, di rossori aurorali. Stamani tende la mano verso il pavimento, raccoglie a caso il giornale che la sera prima aveva lasciato cadere, vinto dal sonno, e lo spiega. Sì, ci vorrebbe qualche cosa di drammatico, magari di catastrofico. Ecco, su quattro colonne, il titolo che cercava, sul pro e il contro della bomba N. Benissimo, che cosa di più catastrofico della fine del mondo? Si accomodo meglio il cuscino sotto la testa, porta il giornale all'altezza degli occhi e legge. (CR, p. 235.)

C'è in questo scorcio la morbosa attenzione dell'uomo per la notizia catastrofica, come si dice diffusamente apocalittica, che la divulgazione di stampa e tv tende a sfruttare e ad esaltare in tutta la sua portata spettacolare. Il protagonista è però anche un uomo intelligente e capisce che sia l'attenzione per questi eventi sia la loro origine (l'evidenza di un orrore come la bomba N) deriva dalla premessa che «l'umanità vuole morire». Ne è spinta dalla sua voglia di vivere, da quella stessa Wille che induce le formiche ad andare in cerca di miele, a spingersi «sul sentiero di guerra» (CR, p. 236) e a farsi uccidere dall'insetticida (quello che è per loro la bomba N, di qui il titolo). L'osservazione della natura, la sua discreta, silenziosa presenza, è ancora una volta per Moravia un antidoto. La curiosità mediatica si fonde inevitabilmente, per il personaggio di questo breve racconto, all'osservazione del comportamento animale, al relativismo che ne deriva:

Ne avrà ammazzate, diciamo, mille. Ma questa strage si è svolta nel silenzio, lui non ha sentito nulla. Eppure, chissà, forse le formiche si lamentavano, gridavano, urlavano. E ancora chi ha mai visto l'espressionedella formica nel momento che muore colpita dall'insetticida? Agli uomini appare un puntino nero, niente di più? (C, p. 238.)

L'interpretazione sociologica dei meccanismi di consumo si apre a una considerazione filosofica e letteraria più ampia, ambigua, polisemica, che va da Leopardi a Shopenhauer, dall'Ecclesiaste (citato) a Camus. Che il pensiero dell'Ecclesiaste sia vero («Nulla di nuovo sotto il sole») è valido fino al 1945, «fino, cioè, alla bomba atomica». Aldilà della sapienza antica e della presunzione umana, ma anche della spettacolarità mediatica, l'uomo dovrebbe arrendersi ancora una volta alla lezione dell'animale:

L'ultima di queste cose nuove è la bomba N. Puoi forse dire, a proposito della bomba N, niente di nuovo sotto il sole? Eh no, proprio no. E allora, forse, delle cose di cui non si può parlare, è meglio tacere. (CR, p. 239.)

Le formiche, le lucciole (siamo di nuovo a Pasolini, «L'articolo delle lucciole», 1 febbraio 1975, «darei l'intera Montedison per una lucciola»...) insegnano a tacere e, con buona pace di Pasolini, anche a spegnere la televisione. Nella convergenza di questa immagine, quindi, possiamo cogliere non solo la critica di questi due scrittori all'azione dei mass media nella società del tempo, ma anche il senso del loro profondo, rinnovato umanesimo.

(Chiara Lonbardi)



Sono giornalista professionista. Ho una laurea in Scienze Politiche ed inseguo quella in Filosofia. Ho frequentato le scuole dei Salesiani. Sono attualmente il Segretario Nazionale del Sindacato Autonomo dei Giornalisti Italiani. Ho diretto testate televisive e della carta stampata e per oltre 20 anni ho condotto programmi radiofonici in emittenti libere. Sono un cronista di strada e amo il giornalismo d'inchiesta. Dell'impegno antimafia ho fatto un motivo fondamentale del mio agire, nella vita e nella professione giornalistica e sindacale. La legalità non è un concetto astratto. Spesso in molti la predicano ma non la praticano nei fatti concreti. Sono quasi sempre contro corrente. Nessuno  mi ha mai regalato nulla. Mi definisco un cultore di musica Rock, Blues, Metal e Hardcore. 

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IL LAVORO DEL CRONISTA COSTA CARO. NE FACCIAMO A MENO?


Il paradosso più grande dell'informazione contemporanea, mentre le notizie corrono e si rincorrono in Rete, nei telefonini, attraverso qualsiasi nuovo mezzo di comunicazione, è che qualcuno sia convinto che il "mestiere dell'informazione" possa essere fatto semplicemente da dietro una scrivania.Che si possa fare a meno dei giornalisti, in primis, e che siccome la rapidità è tutto (?) quel che conta sia arrivare per primi. O quantomeno, pubblicare tempestivamente una notizia già diffusa da altri.

Non entriamo nel merito di cosa significhi fare buona informazione (argomento che ci sta molto a cuore), né di quale sia il contributo di simili testate giornalistiche, televisive e web. Discutiamo piuttosto del problema di fondo: la crisi dell'editoria dura da anni, ormai anche i sassi sanno che non è questo il settore nel quale si possono fare soldi facili, a parte i grandi gruppi editoriali e le corporazioni che si nascondo tra i soci di queste holding della comunicazione. Gli editori che si sono arricchiti grazie a nuove testate si contano sulle dita di una mano. Ad essere di manica larga. Ma allora perché prosperano imprenditori che in maniera più o meno spregiudicata si buttano nell'editoria, sia essa cartacea, web o radiotelevisiva? Semplice: lo fanno creando testate che aprono e chiudono come porte girevoli, investendo poco o pochissimo e spesso per nulla sulla qualità del loro lavoro. Perché per fare un prodotto editoriale di qualità minima servono risorse economiche, ma soprattutto serve forza lavoro. Negli anni questa forza lavoro è stata decimata, licenziata, esodata o sottopagata. Oggi semplicemente si crede che per aprire una testata possano bastare pochi, pochissimi giornalisti impegnati perlopiù in attività di desk e coordinamento redazionale. Perché i "pezzi" si comprano nel grande mercato nero, al minor prezzo e senza badare alla qualità.

Fare cronaca ha dei costi. Un cronista che lavora su un fatto di cronaca è una risorsa fuori dalla redazione, che sia inviato in un Paese estero o semplicemente a pochi chilometri dalla redazione. Al rientro, molto spesso, il collega dovrà occuparsi solo ed esclusivamente di quel fatto per tutta la giornata e non contribuirà al lavoro "redazionale" di insaccatura delle notizie, di post produzione di contenuti forniti da altri. Una situazione poco conveniente, quindi. Sappiamo tutti che in molti casi già oggi e in tutte le testate (piccole o più grandi) al cronista che ha trascorso magari 6 o 7 ore occupandosi di un omicidio o di una inchiesta sul campo, viene richiesta anche una quota di lavoro extra perché altrimenti il giornale, la tv, il sito web o la radio, avrebbero difficoltà a garantire il normale flusso di produzione. Questo anche a scapito della qualità del suo servizio come cronista. Che, lo ricordiamo,oltre alle tutele contrattuali e di legge, necessita anche di molto, moltissimo tempo. Purtroppo la logica conseguenza di questa situazione si traduce in un taglio scellerato dei servizi fuori redazione, quelli da cronista (la famosa suola delle scarpe) e il sempre maggior ricorso al lavoro di scrivania: due telefonate al volo se non l'insaccatura selvaggia di comunicati e agenzie. E le verifiche?

La qualità di tutto questo è sotto i nostri occhi quotidianamente. E spesso provoca i famosi "epic fail" che vediamo sui social network quando si prende a pretesto il marchiano errore in un articolo (cosa che può succedere) per sbeffeggiare un'intera categoria, la nostra. La qualità dell'informazione, quindi, non può che passare attraverso il lavoro di verifica dei cronisti, del loro resoconto sul campo, del mestiere insomma, come tutti (o quasi) lo intendiamo. Sono ovvietà, ma lo ribadiamo ancora, questo è un lavoro che richiede attenzione, scrupolo, coscienza (sì, anche coscienza), indipendenza, qualità e, soprattutto, persone. Chi vuole fare informazione senza le persone (i posti di lavoro) non farà mai un'opera autorevole, di qualità e soprattutto al servizio dei lettori. Altrimenti ci sono le favole (e le bufale). E quelle le vediamo pubblicate ogni giorno, tutte uguali. Siamo certi che questa sia la strada giusta? (c. giu.)

L GIORNALISMO D'INCHIESTA: QUANDO IL REPORTER SI FA DETECTIVE

È il giornalismo di denuncia, quello che non si ferma ai comunicati stampa e alle dichiarazioni ufficiali, ma scava in profondità alla ricerca di notizie importanti per la collettività. Al cronista che trascrive quello che gli arriva sulla scrivania, la deontologia ha sempre opposto il reporter 'cane da guardia della democrazia' che controlla il potere e dà voce a chi non ce l'ha. Denunciando le storture della politica e dell'economia perché siano corrette.
La critica è divisa sulla definizione del giornalismo d'inchiesta. Per i 'puristi' a fare la differenza è il lavoro del reporter: per essere investigativo, deve essere approfondito e legato all'indagine del cronista, che deve analizzare documenti e intervistare testimoni. Come nel caso Watergate, quando due giovani reporter del "Washington Post" misero pazientemente insieme le dichiarazioni dei diversi protagonisti di un'effrazione per ricostruire il più ampio piano di corruzione e sabotaggio elaborato dalla squadra di Nixon.
Faldoni di documenti e colloqui confidenziali
Altri studiosi hanno invece messo l'accento sul prodotto finale: l'inchiesta è la rivelazione di qualcosa ignoto al pubblico, anche se il giornalista si è limitato a riassumere un rapporto riservato del governo o l'atto di accusa di un procuratore. Come nel 'denuncismo' sudamericano. Quello che conta, alla fine, è l'attendibilità delle dichiarazioni: l'autore di un'inchiesta raccoglie più fonti possibili per mettere insieme elementi inconfutabili su un tema di rilevanza pubblica di cui, spesso, qualcuno vuole tenere segreti alcuni particolari. Certo, non manca chi sostiene che il giornalismo per sua natura sia sempre investigativo perché la raccolta delle notizie implica la ricerca dei fatti. Ma nella pratica di tutti i giorni, con vincoli di tempo e di spazio, la differenza esiste: "Il lavoro del reporter ordinario - è stato scritto - è riportare che qualcosa è accaduto. La sfida del reporter investigativo è scoprire perché".
Dai 'muckrakers' al Watergate
Culla del giornalismo d'inchiesta, gli Stati Uniti hanno continuato nei secoli a esserne la patria d'eccellenza. La prima vera stagione del giornalismo d'inchiesta americano esplose nel primo decennio del Novecento quando reporter armati di penna e taccuino svelarono gli intrighi di affaristi e politici corrotti. Il presidente Roosevelt li definì 'muckrakers' perché "scavavano nel letame": loro trasformarono l'epiteto in un appellativo prestigioso. Dall'atto di accusa di Ida Tarbell contro il monopolio di Rockefeller alla denuncia delle allarmanti condizioni in un macello di Chicago, le loro inchieste mostravano che per ogni criminale avido c'era un lavoratore sfruttato o un cittadino defraudato. La spinta investigativa dei reporter americani riemerse in maniera massiccia solo negli anni della contestazione giovanile. La relazione tra giornalisti e potere si era fatta sempre più conflittuale e la teoria della responsabilità sociale della stampa indicava alla professione un obiettivo più nobile del mero profitto: informare i cittadini per promuovere il bene pubblico. Sono gli anni delle inchieste sulla guerra in Vietnam che, seppure in ritardo, misero in dubbio la versione della Casa Bianca sull'incidente del Tonkino, pubblicarono i volumi della Difesa sul coinvolgimento americano nel sudest asiatico (Pentagon Papers) e svelarono il massacro di My Lai (Seymour Hersh). Soprattutto sono i mesi dell'inchiesta del "Washington Post" sull'effrazione al quartier generale dei Democratici (Watergate) che in due anni costrinse il presidente degli Stati Uniti a dimettersi. Confuso con il cinismo e il disfattismo, il giornalismo d'inchiesta americano è finito spesso sotto accusa. Alla sua rinata credibilità hanno contribuito anche i computer, che permettono ai cronisti di analizzare enormi quantità di dati e di informazioni (Computer-Assisted Reporting).
Il Quarto Potere
Il giornalismo d'inchiesta ha sempre rappresentato l'ideale della democrazia popolare: reporter vigili e scrupolosi portano le trasgressioni all'attenzione pubblica; cittadini interessati e informati chiedono riforme ai loro rappresentanti, che a loro volta rispondono con azioni correttive. Nella realtà, però, il meccanismo è meno lineare e spesso le denunce dei media cadono nel vuoto o influenzano direttamente le priorità dei politici saltando la mediazione del pubblico ('agenda-building'). Nel caso Watergate, per esempio, il pubblico fu più uno spettatore che un protagonista delle dimissioni di Nixon, frutto piuttosto della convergenza tra la tenacia del "Washington Post" e le successive confessioni al processo e udienze al Senato. Quando l'inchiesta non può essere ignorata, ha come effetto inchieste parlamentari, procedimenti giudiziari o proposte di legge. A prescindere dalla volontà del reporter di cambiare la situazione, perché la semplice denuncia di un crimine o di un'ingiustizia contribuisce alla sua correzione. Da qui la definizione di giornalismo d'inchiesta come 'giornalismo dell'indignazione'. Né sono mancati i casi in cui il reporter ha apertamente collaborato con i legislatori per mettere a punto le riforme. Come Upton Sinclair, il 'muckraker' che con la sua inchiesta sui macelli insalubri contribuì a far passare la legge per il controllo del cibo e delle medicine negli Stati Uniti (1906): "Dì a Sinclair di tornare a casa", si racconta abbia detto Roosevelt all'editore del cronista dopo aver firmato la riforma, "e che mi lasci governare il Paese per un po'".

Sofia Basso

(Giornalista e massmediologa)

  • A MANIFESTO FOR THE SIMPLE SCRIBE - MY 25 COMMANDAMENTS FOR JOURNALISTS DI TIM RADFORD

1. Quando ti siedi a scrivere c'è una sola persona veramente importante nella tua vita. E' qualcuno che tu non incontrerai mai ed è chiamato lettore.

(Non è più così vero. Non per tutti i giornalisti, almeno. Su questo blog ho conversazioni con i lettori e già programmiamo di incontrarci una di queste sere. Un mese fa ho incontrato tre lettori di GQ.com particolarmente attivi sul Twitter della testata che sono venuti in redazione per discutere del futuro di Gq e del giornalismo digitale, ndr).

2. Non scrivi per far colpo sullo scienziato che hai appena intervistato, né per il professore che ti ha seguito all'università, o per il direttore che ti ha bocciato o per quella tipa sexy che hai appena incontrato a una festa e a cui hai detto che sei uno scrittore. Oppure per tua madre. Stai scrivendo per colpire qualcuno appeso a una maniglia della metro fra Parson's Green e Putney, che forse smetterà di leggere in un quinto di secondo.

(Questo è ancora più vero nel giornalismo online dove basta un clic per saltare da un argomento noioso ad un altro, ndr).

3. Quindi, la prima frase che scriverai sarà la frase più importante della tua vita, e così la seconda, e così la terza. E questo perché, se tu puoi sentirti obbligato a scrivere, nessuno si potrà mai sentire obbligato a leggere.

4. Il Giornalismo è importante. Ma non deve, mai, sentirsi e mostrarsi importante. Niente spinge un lettore a rifugiarsi alla pagina delle parole crociate o a quella dei risultati dell'ippica più della pomposità. Quindi parole semplici, idee chiare e frasi brevi sono vitali nella narrazione giornalistica.

5. C' è una frase da incidere sul cartello che appenderai sulla tua macchina per scrivere: ''Nessuno mai protesterà se renderai un fatto più semplice da capire''.

6. Ed ecco un'altra cosa che dovrai ricordare ogni volta che ti siedi davanti alla tastiera: ''Nessuno ha il dovere di leggere questa merda''.

7. Se hai dei dubbi, parti dal fatto che il lettore non sa nulla. Ma non fare mai la sciocchezza di giudicarlo stupido. Un errore classico nel giornalismo è di sopravvalutare quello che il lettore sa e di sottovalutare invece la sua intelligenza.

8. La vita è complicata, ma il giornalismo non può essere complicato. E' proprio perché i problemi - medicina, politica, finanza - sono complicati che i lettori si rivolgono al Guardian, o alla Bbc, a Lancet, o alle vecchie pagine di giornale con cui si avvolge il pesce nelle pescherie e gli acquisti ai self service, sperando che li renderanno più semplici.

9. Quindi, se una questione è aggrovigliata come un piatto di spaghetti, tratta il tuo articolo come se fosse uno degli spaghetti, estratto dal groviglio. Rispettando la ricetta, con olio, aglio e salsa di pomodoro. Il lettore ti sarà grato perché gli hai dato la semplicità di una parte e non la complessità del tutto. Questo perché: a) il lettore sa bene che la vita è complicata, ma è contento di avere per lo meno un aspetto che è stato spiegato chiaramente e b) perché nessuno leggerebbe mai un servizio che annuncia: ''E' una vicenda inspiegabilmente complicata...''.

10. Una regola. Un articolo deve raccontare solo una cosa. Se hai di fronte quattro aspetti di una vicenda, intrecciali attorno alla cosa principale che devi raccontare. Puoi utilizzarne dei frammenti nel tuo articolo, ma solo se puoi farlo senza doverti staccare troppo dal racconto che hai scelto di seguire.

11. Una osservazione. Non cominciare a scrivere fino a quando non hai deciso qual è il senso della storia e cerca di formularlo con te stesso in una frase. Quindi chiediti se tua madre riuscirebbe ad ascoltare questa frase per più di un microsecondo senza riprendere a stirare. Quando dovrai vendere al direttore di un giornale una idea per un articolo, avrai lo stesso livello di attenzione, e quindi fai attenzione a quella frase. Spesso, non sempre, sarà la prima frase del tuo articolo.

12. C' è sempre un attacco ideale per qualsiasi articolo. Esso aiuta veramente a pensare a quello che viene dopo, perché scoprirai che le frasi successive si scrivono quasi da sole, molto velocemente. Non significa che tu sei semplicistico o superficiale. Oppure di gran talento. Significa solo che hai scritto la frase giusta.

13. Definizioni come queste non sono degli insulti per un giornalista. Il punto essenziale per chi paga per un giornale è avere delle informazioni che scivolano via facilmente e velocemente, senza troppe note, riferimenti oscuri e note alle note.

14. Parole come ''sensazionale'' o ''futile'' non devono far storcere il muso a un giornalista. Leggi quello che leggi - teatro elisabettiano, romanzi russi, fumetti satirici francesi, thriller americani - perché qualcosa nelle loro pagine stimola sentimenti di eccitazione, o di humour, il romanticismo o l' ironia. Il buon giornalismo dovrebbe darti appunto la sensazione di humour, di eccitazione, di intensità o di sapore piccante. Superficiale è uno degli insulti preferiti dai professoroni. Ma anche loro si appassionano delle loro materie prima di tutto perché vengono attratti da qualcosa di luccicante, appariscente e, è vero, di futile.

15. Le parole hanno un significato. Rispettalo. Guarda sul dizionario, scopri come vengono usate. E usale con proprietà. Non pavoneggiarti dietro la tua ignoranza. Non infilarti d'impulso in un sentiero impervio senza prima chiederti in che modo sarai capace di aprirti una strada.

16. I cliché, nell'istruzione classica del mondo dei quotidiani, devono essere evitati come la peste. Tranne quando sono il cliché adatto. E' sorprendente scoprire quanto sia utile un cliché, quando viene usato giudiziosamente. Perché il giornalismo non è tanto essere bravo quanto essere veloce.

17. Le metafore sono grandi cose. Ma non scegliere metafore astruse e mai, mai, mischiarle. La ciurma del Guardian aveva un Premio speciale , una sorta di Oscar dell'incompetenza, assegnato a un cronista di relazioni industriali che aveva spiegato al mondo che ''alcuni gatti selvaggi al Congresso delle Trade Unions erano appostati nel sottobosco, pronti a balzare come dei pirana, nonostante avessero la museruola''. E George Orwell raccontava di un poliziotto militare secondo cui ''la piovra dell'oppressione fascista aveva intonato il suo canto del cigno''.

18. Attenzione alle pose. Quando Mosé ordinò ai suoi comandanti di uccidere i Madianiti non lo fece per dimostrare che lui era un vero duro. (...). Il linguaggio del pub o del bar ha i suoi ritmi, il suo codice corporeo, i suoi sistemi di segnalamento. Il linguaggio della pagina non ha accentuazioni, non ha le tonalità che possono indicare scherzo o commedia o autoironia. Deve essere diretto, chiaro e vivido. E per essere diretto e vivo, deve seguire la propria grammatica.

19. Attenzione alle parole lunghe e incomprensibili. Attenzione al gergo. Se scrivi cose scientifiche questo è doppiamente importante. Devi bandire le parole che gli esseri umani normali non userebbero mai, come fenotipo, mitocondrio, inflazione cosmica, distribuzione di Gauss o isostasia. Non cercare di sembrare ''sfavillante'' o ''al settimo cielo'', basta essere brillante e felice.

20. L' inglese è meglio del latino. Tu non stermini, tu uccidi. Tu non ''sbavi'', tu sei innamorato. Tu non deflagri, bruci. Mosè non disse al Faraone:''La conseguenza della mancata liberazione della popolazione di un particolare soggetto etnico potrebbe determinare alla fine qualche particolare affezione alle colonie di alghe nel bacino centrale del fiume, con delle conseguenze impreviste per la flora e la fauna, e anche per i servizi ai consumatori''. Disse invece: ''le acque del fiume...si trasformeranno in sangue, e i pesci del fiume moriranno, e il fiume puzzerà''.

21. Ricorda che le persone vengono colpite da quello che è più vicino a loro. I cittadini della zona sud di Londra potrebbero preoccuparsi di più per la riforma economica in Surinam che per il risultato della squadra del Millwall il sabato, ma la maggior parte di loro non lo farà. Devi accettarlo. Il 24 novembre 1963, l'Hull Daily Mail (un giornale locale della zona di Hull, nello Yorkshire, ndr) mi mandò alla ricerca di un punto di vista locale sull' assassinio del presidente Kennedy. Una volta trovato l' attacco del pezzo, che faceva ''Gli abitanti di Hull erano in lutto stamani per...'', potevo andare avanti tranquillamente col racconto di quello che era accaduto a Dallas.

22. Leggi. Leggi un sacco di cose diverse. Leggi la Bibbia di Re Giacomo e Dickens, le poesie di Shelley e i fumetti della Marvel e i thriller di Chester Himes e Dashiel Hammet. Guarda le cose strabilianti che si possono fare con le parole. Osserva come possono evocare per incanto interi mondi nello spazio di mezza pagina.

23. Attenzione alle cose troppo definitive. L' ultimo cavallo di Godalming (cittadina del Surrey, ndr) non sarà certamente l'ultimo cavallo del Surrey. Ci sarà sempre più o meno qualcuno più grande, veloce, vecchio, giovane, ricco o nauseante del candidato a cui hai appena affibbiato l'ultimo superlative. Salvati sempre dai seccatori: ''Uno dei primi...'' ti salverà. Altrimenti, per lo meno qualificalo così: ''Secondo il Guinness dei primati...'', ''L'elenco dei ricchi del Sunday Times...''. E così via.

24. Ci sono cose che il buon gusto e la legge ti impediscono semplicemente di dire per iscritto. Le mie preferite sono: ''Assassino assolto'' e (in un articolo sulle funzioni religiose di Pasqua), ''Paul Meyers, che faceva Gesù Cristo, è emerso come la star dello show''.

25. Chi scrive ha delle responsabilità, non solo di tipo legale. Puntare alla verità. Se quest'ultima è sfuggente, e spesso lo è, per lo meno puntare alla correttezza, coscienti che c'è sempre un' altra faccia della vicenda. Attenzione a chi predica l'obbiettività. Costoro sono i più elusivi di tutti. Puoi scrivere che la Royal Society sostiene che l'ingegneria genetica è una buona cosa e che l'uranio impoverito è assolutamente innocuo. Ma devi ricordarti che l'ingegneria genetica è stata inventata da persone che sono state immediatamente accolte nella Royal Society, per la loro intelligenza, da altre persone che sono già membri della società perché hanno scoperto come arricchire il combustibile delle barre di uranio e come impoverire il resto. Dunque, parafrasando Miss Mandy Rice-Davies, (una delle protagoniste dello scandalo Profumo, ndr), "Che altro potrebbero dire, non vi sembra?''

Tutti i giornalisti sono, per via del loro mestiere, degli allarmisti; è il loro modo di rendersi interessanti.
(Arthur Schopenhauer) 

SINDACATO AUTONOMO GIORNALISTI ITALIANI (S.A.G.I.)

Lo Statuto sindacale


CAPO I

COSTITUZIONE , SCOPI , ASSOCIATI E ORGANI STATUTARI

Art. 1

E' costituito il SINDACATO AUTONOMO GIORNALISTI ITALIANI( in seguito S.A.G.I.) con sede legale in Palermo.

Il S.A.G.I è un'associazione rappresentativa dei giornalisti italiani, dei lavoratori dipendenti, degli associati in forme cooperative ed autogestite, dei collaboratori, dei soggetti in cerca di prima occupazione che abbiano titolo per svolgere - o, se pensionati, hanno svolto - la professione giornalistica. Costituisce incompatibilità l'iscrizione ad un Ordine, Collegio o Associazione professionale che concerna professioni diverse da quella giornalistica.

Art. 2

Possono aderire al S.A.G.I tutti i lavoratori che svolgono la professione giornalistica ai sensi di legge, sia individualmente, che attraverso gruppi associativi di categoria, che perseguono le finalità e gli scopi del presente statuto.

Art. 3

Il S.A.G.I persegue i seguenti obiettivi:

1)Promuovere la definizione delle vertenze innanzi ai competenti organi, come previsto nel regolamento;

2)Intervenire con mezzi idonei al fine di favorire e promuovere ogni iniziativa rivolta a consolidare i legami fra i soggetti che operano e collaborano nei settori della Stampa e della Comunicazione;

3)Organizzare convegni, incontri, tavole rotonde e dibattiti sul ruolo e l'evoluzione del giornalismo e della Stampa.

Art. 4

Il S.A.G.I è indipendente rispetto a tutte le forze politiche, sindacali ed economiche; è altresì contrario a qualsiasi tipo di discriminazione sociale, culturale, etnica, economica e religiosa.

Intende, tuttavia, confederarsi con altri sindacati aventi rilievo nazionale per il raggiungimento degli obiettivi programmati di cui ai successivi articoli.

ART. 5

Scopi propri del Sindacato:

a) organizzare in un'unica Associazione Sindacale i lavoratori dipendenti da aziende operanti nel settore della telecomunicazione, della carta stampata e del web;

b) tutelare, nel campo sindacale, gli interessi professionali, economici e morali, collettivi ed individuali, di tutti i lavoratori ad esso appartenenti, con assoluta autonomia da ogni vincolo o ingerenza delle forze politiche;

c) stipulare, in nome e per conto dei propri rappresentati, accordi e convenzioni di carattere generale e/o particolare, che interessino le categorie, provvedendo e garantendo agli associati tutela ed assistenza;.

d) favorire la partecipazione dei giornalisti ai compiti decisionali nelle rispettive aziende e preoccuparsi di difenderne l'autonomia sia nei confronti dei pubblici poteri sia nei confronti di qualsivoglia ingerenza esterna.

Art. 6

La qualifica di associato al S.A.G.I, si acquisisce con l'atto di tesseramento.

L'associato:

a) ha diritto all'assistenza nell'ambito dell'attività sindacale svolta dal S.A.G.I;

b) ha il dovere di corrispondere la quota annuale di associazione, di cooperare al fine di incrementare, ove possibile, le adesioni per la Sezione di appartenenza, di osservare le disposizioni statutarie ed ogni altra delibera adottata dagli Organi direttivi, e di tenere, altresì, un comportamento di lealtà improntato ai principi di correttezza e buona fede, nei confronti del Sindacato e dei suoi Organi direttivi;

Art. 7

Si perde la qualifica di associato:
a) per dimissioni;
b) per morosità di due quote consecutive;
c) per espulsione deliberata dal Collegio dei Probiviri competente per territorio, per gravi inosservanze delle regole statutarie e violazioni di norme di legge.

Art. 8

Sono Organi Nazionali della Associazione Sindacale: - L'Assemblea Nazionale;
- il Consiglio Direttivo Nazionale; - il Segretario Generale;
- la Segreteria Nazionale;
- il Collegio Nazionale dei Sindaci ;
- il Collegio Nazionale dei Probiviri.

Sono Organi periferici della Associazione Sindacale:
- L'assemblea Regionale e Provinciale;
- il Consiglio Direttivo Regionale e Provinciale;
- la Segreteria Regionale e Provinciale ;
- il Collegio dei Sindaci;
- il Collegio dei Probiviri;

Art. 9

Le cariche sociali sono elettive e hanno una durata quadriennale.

Le decisioni di ciascun Organo della Associazione Sindacale, nell'ambito della rispettiva competenza, devono essere adottate a maggioranza dei componenti.

Le decisioni adottate dagli Organi Direttivi, dovranno essere verbalizzate.

E' facoltà di ciascuno dei componenti, richiedere che le decisioni vengano adottate a scrutinio segreto.

CAPO II

L'ASSEMBLEA NAZIONALE

Art. 10

L'Assemblea Nazionale è il massimo Organo della Associazione Sindacale. Essa si riunisce in via ordinaria ogni quattro anni, su convocazione del Consiglio Direttivo Nazionale, ed in via straordinaria, su richiesta di almeno 2/3 dei componenti del Consiglio Direttivo Nazionale o del cinquanta per cento più uno degli iscritti alla Associazione Sindacale.

La richiesta di convocazione straordinaria dell'Assemblea Nazionale, per la sua efficacia, deve contenere i motivi per i quali si intende proporre la discussione.

Il Consiglio Direttivo Nazionale provvede ad inoltrare, alle Segreterie Regionali e Provinciali, l'avviso di convocazione dell'Assemblea Nazionale, sia ordinaria che straordinaria, contenente l'ordine dei lavori, entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data stabilita per l'Assemblea Nazionale.

Art. 11

L'Assemblea Nazionale è composta dai delegati eletti nell'ambito delle rispettive Assemblee provinciali e regionali.

La percentuale dei partecipanti, la quale rileva ai fini della validità delle delibere, viene determinata, di volta in volta, dal Consiglio Direttivo Nazionale in relazione al numero degli associati che hanno regolarmente effettuato il versamento dei contributi, entro il termine di sessanta giorni dalla data di convocazione dell'Assemblea Nazionale.

I Componenti del Consiglio Direttivo Nazionale partecipano di diritto all'Assemblea Nazionale, tuttavia, se non delegati, non possono esercitare il diritto di voto.

Partecipano, altresì all'Assemblea Nazionale, con voto consultivo, i componenti del Collegio Nazionale dei Sindaci e del Collegio Nazionale dei Probiviri.

Art. 12

L'Assemblea Nazionale è regolarmente convocata quando vi siano rappresentati, complessivamente, la metà più uno degli iscritti alla Associazione Sindacale.

Le decisioni sono prese a maggioranza semplice dai delegati.

Art. 13

Funzioni dell'Assemblea Nazionale:

a) eleggere il Consiglio Direttivo Nazionale, nel numero di ventuno componenti; b) eleggere il Segretario Generale;
c) eleggere il Collegio Nazionale dei Sindaci;
d) eleggere il Collegio Nazionale dei Probiviri; e) stabilire le linee programmatiche relative all'attività sindacale della Associazione Sindacale;
f) modificare in tutto o in parte lo Statuto della Associazione Sindacale previo voto favorevole di almeno due terzi dei delegati all'Assemblea Nazionale.

Le decisioni espresse dall'Assemblea Nazionale, sono vincolanti per tutti gli associati alla Associazione Sindacale.

CAPO III

CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE

Art. 14

Il Consiglio Direttivo Nazionale è il massimo Organo deliberante della Associazione Sindacale, nel periodo intercorrente tra un'Assemblea Nazionale e un'altra.

Esso è composto da trentuno componenti, eletti dall'Assemblea Nazionale.

Nel caso in cui l'elezione dei predetti Consiglieri sia avvenuta con il sistema della lista unica, il Consiglio Direttivo Nazionale, su proposta della Segreteria Nazionale, procede a cooptare i dirigenti sindacali di provata capacità e competenza in un numero non superiore al 25% degli eletti all'Assemblea Nazionale e, in ogni caso, fino a un massimo di sei.

Il Consiglio Direttivo Nazionale si riunisce in via ordinaria dopo che abbia avuto luogo l'Assemblea Nazionale ed almeno una volta ogni sei mesi.

In via straordinaria si riunisce su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti, qualora si verifichi la fattispecie concreta prevista dall'art. 10, ovvero ogni qualvolta la Segreteria Generale ne ravvisi la opportunità.

Art. 15

Funzioni del Consiglio Direttivo Nazionale:

a) eleggere nel proprio seno, su proposta del Segretario Generale, il Comitato Esecutivo e provvedere alle sostituzioni dei Componenti dimissionari o decaduti del Consiglio Direttivo Nazionale, del Collegio Nazionale dei Sindaci e del

Collegio Nazionale dei Probiviri.

b) impartire direttive affinchè siano attuate le delibere dell'Assemblea Nazionale;

c) fissare le quote relative ai contributi annuali;

d) approvare i bilanci preventivi e consuntivi;

e) deliberare su ogni altra materia di carattere politico-sindacale-organizzativo;

Art. 16

Le riunioni del Consiglio Direttivo Nazionale, sono presiedute dal Segretario Generale e da un Presidente eletto dal Consiglio stesso.

Art. 17

Le riunioni sono valide se sono presenti almeno i due terzi dei suoi componenti, in prima convocazione, ed almeno un terzo degli stessi, in seconda convocazione.

Le decisioni sono prese a maggioranza. In caso di parità di voti, prevale il voto del Presidente.

Per ogni riunione del Consiglio Direttivo Nazionale, viene redatto apposito verbale.

CAPO IV

LA SEGRETERIA NAZIONALE DEL S.A.G.I.

Art. 18

La Segreteria Nazionale è composta da 3 membri, fra i quali il Segretario Generale che la presiede.

La Segreteria Nazionale dà impulso all'azione sindacale secondo le direttive dell'Assemblea Nazionale e del Consiglio Direttivo Nazionale; assume, nei casi di necessità e/o urgenza, tutte le deliberazioni di competenza del Consiglio Direttivo Nazionale, al quale dovranno essere sottoposte per la ratifica nella prima riunione utile e comunque la competenza deliberativa su qualsiasi questione con carattere d'urgenza. In tali casi le delibere sono immediatamente esecutive.

Deferisce al Collegio Nazionale dei Probiviri tutte le questioni disciplinari, qualora si ravvisino da parte degli iscritti comportamenti o atti contrari agli obblighi statutari.

Ogni componente della Segreteria Nazionale risponde del suo operato, sulla base dell'incarico affidatogli, al Segretario Nazionale.

Art. 19

Il Segretario Nazionale ha la rappresentanza legale e processuale della Associazione Sindacale.

Opera secondo quanto previsto dalle disposizioni statutarie e nel rispetto dei principi democratici.

Convoca le riunioni della Segreteria Nazionale.

Partecipa all'Assemblea Nazionale della Associazione Sindacale - ove non delegato - senza l'esercizio del diritto al voto.

Propone ai componenti eletti del Consiglio Direttivo Nazionale le candidature relative alle figure del Segretario Vicario e del Responsabile Amministrativo;

CAPO V

IL COLLEGIO NAZIONALE DEI SINDACI

Art. 20

Il Collegio Nazionale dei Sindaci si compone di tre Sindaci effettivi e di due supplementari.

I membri effettivi eleggono, al proprio interno, il Presidente.

Il Collegio Nazionale dei Sindaci, ha il compito di:

a) redigere la relazione dei bilanci consuntivi ed illustrarla al Consiglio Direttivo Nazionale

b) controllare l'andamento amministrativo della Associazione Sindacale.
Il Collegio riferisce della propria attività al Consiglio Direttivo Nazionale.

CAPO VI

IL COLLEGIO NAZIONALE DEI PROBIVIRI

Art. 21

Il Collegio Nazionale dei Probiviri è composto da cinque membri, di cui due supplementari.

I membri effettivi eleggono, al proprio interno, il Presidente.

Il Collegio Nazionale dei Probiviri esamina e decide le questioni che possono sorgere fra gli associati e fra questi e gli Organi della Associazione Sindacale.

Giudica il comportamento dei singoli iscritti in relazione ad eventuali violazioni degli obblighi legali e statutari, di cui gli stessi si siano resi responsabili.

Le decisioni del Collegio Nazionale dei Probiviri vengono notificate per iscritto e debbono essere motivate.

Avverso le decisioni del Collegio Nazionale dei Probiviri, è ammesso il ricorso alla Segreteria Nazionale entro 90 giorni dalla notifica della decisione stessa.

CAPO VII

ORGANI PERIFERICI

Art. 22

Sono organi periferici della federazione:

a) l'Assemblea Regionale e Provinciale;

b) il Consiglio Direttivo Regionale/Provinciale;

c) la Segreteria Regionale/Provinciale ;

d) il Collegio dei Sindaci;

e) il Collegio dei Probiviri;

f) coordinatore regionale.

Art. 23

Tali Organi territoriali, limitatamente alla loro attività nel territorio regionale o provinciale, hanno gli stessi poteri previsti per gli Organi Nazionali.

Art. 24

Spetta all'Assemblea Regionale/Provinciale:

a) eleggere il Consiglio Direttivo Regionale fino al un massimo di componenti, pari al numero di province presenti nella Regione o nella macro Regione, ed il Consiglio Direttivo Provinciale fino ad un massimo di undici componenti;

b) eleggere il Collegio dei Sindaci;

c) eleggere il Collegio dei Probiviri;

d) eventualmente, nominare un coordinatore regionale, il quale ha la funzione di rappresentare punto di contatto tra l'Assemblea Nazionale, il Consiglio Direttivo Nazionale e gli organi periferici, con il precipuo compito di coordinare le attività degli stessi secondo gli indirizzi e le direttive degli organi superiori.

Art. 25

Spetta al Consiglio Direttivo Regionale/ Provinciale:

a) eleggere il Segretario ;

b) impartire direttive affinchè siano attuate le deliberazioni dell'Assemblea Nazionale;

c) deliberare su tutte le questioni organizzative ed amministrative della Associazione sindacale;

d) approvare i bilanci preventivi e consuntivi.

Art. 26

Spetta al Segretario Regionale/Provinciale proporre al direttivo , un Vice Segretario ed un Segretario Amministrativo.

CAPO VIII

NORME AMMINISTRATIVE

Art. 27

Le entrate della Federazione sono costituite:

a) dall'ammontare dei contributi versati dagli associati;

b) dagli interessi attivi e da altre eventuali rendite;

c) da eventuali contribuzioni volontarie.

Art. 28

Le uscite sono costituite:

a) dalle spese di organizzazione e di amministrazione ( stampa, propaganda, indennità di viaggio, rappresentanza, convenzione, ecc.),

b) da altre spese eventualmente dichiarate obbligatorie da leggi e regolamenti delle competenti autorità.

Tutte le altre eventuali spese, ritenute facoltative, devono avere per oggetto servizi, uffici o attività di interesse della Associazione Sindacale.

Art. 29

L'importo delle quote sindacali annue deve pervenire alla Segreteria Nazionale che ne cura l'amministrazione e la ripartizione.

Le quote sindacali vengono così ripartite:
il 50% delle quote alla Segreteria Nazionale il 25% delle quote alla Segreteria Regionale il 25% delle quote alla Segreteria Provinciale.

CAPO IX

NORME GENERALI

Art. 30

Per quanto concerne le norme relative ai criteri da utilizzare per l'elezione dei membri ed il funzionamento dei singoli organi previsti dal presente Statuto si rinvia ad apposito regolamento.

Per quanto non espressamente previsto dal presente Statuto, si rimanda alle norme generali del Codice Civile e alle leggi vigenti in materia 



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